Patty Pravo PDF Stampa E-mail

Il 26 maggio del 1992 Patty Pravo varcò i cancelli del carcere femminile di Rebibbia. Era stata la Guardia di Finanza a portarla lì. Il pubblico ministero non aveva dubbi: il fatto è grave. Così, alle nove e mezza di sera, entrò in galera e venne collocata nella sezione di isolamento, come disposto dal magistrato. L’accusa era quella di spaccio di droga. Fra hashish e marijuana, nella sua casa non ce n’era tuttavia che dieci grammi o poco più. “Ho capito una cosa”, affermerà una volta riacquistata la libertà. “Se non ti chiami Patty Pravo e non hai quattro soldi per un avvocato, per una storia del genere in prigione ci resti seppellito, senza sapere a chi chiedere aiuto”. Racconterà di aver alloggiato in “una cella sporca, ignobile. Bisognerebbe che qualcuno andasse là dentro a vedere”, dirà. Trascorse tre giorni in quella prigione. Le detenute di Rebibbia le rimasero nel cuore. Prima di andarsene, le aveva salutate a modo proprio. Aveva interpretato per loro e per le agenti Ragazzo triste. Detenute e poliziotte avevano cantato con lei. “È stato così, passando davanti ad ogni cella chiusa”, racconterà, “che ho salutato quelle che per due giorni e tre notti sono state le mie compagne di sventura”. Il carcere aveva, a suo dire, un’ottima acustica. “Magari si potessero fare due o tre giorni al mese, in carcere. Incontri storie, persone incredibili. Un’umanità coinvolgente. Capisci che i veri farabutti non stanno dentro”. Patty Pravo è stata con noi in questa puntata di Jailhouse rock.

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